Parma, 6 agosto 2024 – I terremoti si possono “prevedere”? Si possono cioè individuare e riconoscere segnali che possono essere ragionevolmente considerati “avvisaglie”? Queste domande, tra le più rilevanti e ricorrenti in ambito sismologico, hanno motivato due studi guidati dall’Università di Parma, recentemente pubblicati sul “Journal of Geophysical Research: Solid Earth” e su “Scientific Reports”, e incentrati su due dei terremoti più significativi d’inizio millennio: quello dell’Aquila del 2009 (magnitudo 6.3) e quello del Sichuan del 2008 (magnitudo 7.9).
Primo autore di entrambi è Giampiero Iaffaldano, docente di Geofisica della Terra solida dell’Unità di Scienze della Terra al Dipartimento di Scienze Chimiche, della Vita e della Sostenibilità Ambientale dell’Università di Parma.
Il primo studio è intitolato Variations of Whole–Adria Microplate Motion During the Interseismic Phase Preceding the MW 6.3, 6 April 2009 L’Aquila (Italy) Earthquake, ed è uscito a giugno sul “Journal of Geophysical Research: Solid Earth”. Il secondo, intitolato Impact of the 2008 MW 7.9 Great Wenchuan earthquake on South China microplate motion, è stato pubblicato a luglio su “Scientific Reports”.
La loro novità sta principalmente nel dimostrare che esistono segnali associati ai terremoti rilevabili da GPS (lo stesso sistema che viene utilizzato su mappe e navigatori degli smartphone) molto prima e molto lontano, e che quindi potrebbero essere potenzialmente sfruttati per mitigare il rischio sismico.
Com’è noto, la superficie terrestre è divisa in un mosaico di placche tettoniche che si muovono in direzioni diverse a velocità comprese fra pochi millimetri e centimetri l’anno. I moti tra placche in contatto fra loro generano un lento accumulo di energia, che viene poi rilasciata improvvisamente attraverso i terremoti. Il terremoto dell’Aquila, ad esempio, ha rilasciato energia accumulata nel tempo lungo parte degli Appennini a causa del moto fra la placca Adria (che comprende l’Italia centrale e settentrionale) e la zona Tirrenica.
È consolidato nella comunità scientifica che i moti tra placche alimentano la genesi dei terremoti. La comunità ha però sempre assunto che non fosse vero il contrario, ossia che i terremoti e la loro lenta fase preparatoria di accumulo di energia (che, insieme, prendono il nome di ciclo sismico) non avessero effetto sui moti delle placche. Studi molto recenti, inclusi i due appena pubblicati, dimostrano che invece i terremoti hanno un effetto tangibile e misurabile sui moti delle intere placche. Questi effetti sono evidenti da misure GPS anche diversi anni prima che accada il terremoto. L’articolo sul terremoto dell’Aquila dimostra che c’è un rallentamento del 20% del moto della placca Adria nei 6 anni che precedono il terremoto del 2009.
“Penso che l’interesse scientifico di questa scoperta – spiega Giampiero Iaffaldano - è che apre una nuova prospettiva, mai considerata prima, sulla mitigazione di rischio sismico. Per dirla in soldoni, solitamente si cercano segnali precursori nei mesi o giorni precedenti i grandi terremoti, e nelle immediate vicinanze di faglie notoriamente attive. Questi studi dimostrano che il ciclo sismico (il lento accumulo di energia seguito dal terremoto) è in grado di modificare il moto di intere placche tettoniche, che viene misurato negli anni attraverso reti di stazioni GPS dislocate a centinaia o addirittura migliaia di chilometri di distanza da quello che sarà in seguito l’epicentro. Questo implica che ci sono segnali potenzialmente precursori anche anni prima e a grandi distanze dai grandi terremoti. La prospettiva di sfruttare questi segnali nelle valutazioni di rischio sismico è qualcosa di assolutamente nuovo”.