Alma universitas studiorum parmensis A.D. 962 - Università di Parma Alma universitas studiorum parmensis A.D. 962 - Università di Parma

Parma, 3 aprile 2025 – L’impatto della presenza umana sulla biodiversità naturale delle piante è molto elevato in moltissimi ecosistemi del pianeta e i motivi principali sono l’urbanizzazione, l’inquinamento e il disboscamento. È stato stimato che fino a quattro specie di piante su cinque sono assenti dai loro habitat naturali nelle aree a maggiore impronta ecologica umana. È quanto emerge dallo studio “Global impoverishment of natural vegetation revealed by dark diversity”, pubblicato su “Nature”, che ha coinvolto gli oltre 250 scienziate e scienziati di tutto il mondo che costituiscono la rete di ricerca internazionale collaborativa DarkDivNet. Tra questi vi sono quattro ricercatori e ricercatrici dell’Università di Parma: Alessandro Petraglia, Michele Carbognani, Marcello Tomaselli e T’ai G. W. Forte.

Ricercatrici e ricercatori hanno raccolto dati di biodiversità in quasi 5500 siti di 119 regioni del mondo. In particolare, il gruppo di ricerca in Geobotanica ed Ecologia vegetale dell’Università di Parma ha contribuito con dati provenienti dalle foreste di faggio dell’Appennino settentrionale e dalle praterie d’alta quota delle Alpi Retiche (Passo Gavia). Le indagini sono state condotte adottando un protocollo condiviso da tutta la rete DarkDivNet, registrando non solo le specie vegetali presenti in ogni sito, ma anche le specie autoctone che dovrebbero esserci e risultano invece assenti. L’innovativo approccio scientifico ha identificato quindi la diversità oscura (in inglese, dark diversity) che ha consentito di calcolare il potenziale della diversità vegetale di ogni area e rivelato quanto l’impronta umana lo abbia ridotto

La rete di ricerca collaborativa DarkDivNet è nata nel 2018 da un'idea di Meelis Pärtel dell’Università di Tartu, Estonia. Il prof. Pärtel ricorda: "Avevamo introdotto la teoria della diversità oscura e sviluppato metodi per studiarla, ma per fare confronti globali avevamo bisogno di un campionamento coerente in molte regioni. Sembrava una missione impossibile, ma molti colleghi da diversi continenti si sono uniti a noi". Il prof. Pärtel aggiunge: "Sono molto grato a tutti i partecipanti per il loro duro lavoro sul campo e il loro entusiasmo. Tutti hanno trovato un modo per fornire dati senza finanziamenti centrali".

Le misurazioni tradizionali della biodiversità impiegate fino a oggi, come il semplice conteggio del numero di specie registrate, non offrivano un quadro completo sull’entità reale dell’impatto delle attività umane: l’identificazione della diversità oscura ha permesso di colmare il gap conoscitivo. La relazione fra l’Indice di Impronta Umana - che rileva fattori quali densità della popolazione, urbanizzazione, agricoltura e infrastrutture – e la diversità oscura ha dimostrato inoltre che l’impatto antropico si estende ben oltre le aree direttamente modificate, fino a centinaia di chilometri di distanza, interessando anche le riserve naturali.

Nei territori tutelati da aree protette gli ecosistemi contengono in genere più di un terzo delle specie potenzialmente idonee, mentre quelle assenti lo sono soprattutto per cause naturali, come i limiti biologici della loro capacità di dispersione. Dove l’impronta umana è maggiore, la quantità di biodiversità assente è invece elevatissima, con ecosistemi che arrivano a contenere anche solo una specie idonea su cinque

 “Lo studio conferma che le attività antropiche influenzano negativamente la biodiversità a livello globale. E, purtroppo, questa conferma mostra uno scenario quantitativo ben peggiore rispetto alle ipotesi precedenti”, dichiara Alessandro Petraglia, docente di Botanica e di Biodiversità vegetale al Dipartimento di Scienze Chimiche, della Vita e della Sostenibilità Ambientale dell’Università di Parma. 

L'influenza negativa dell'attività umana sulla biodiversità, rivela lo studio, è meno pronunciata quando almeno un terzo della regione circostante l’area investigata è incontaminato o ben protetto, un risultato che va a sostegno dell'obiettivo globale di proteggere il 30% del territorio.

Il progetto ha sottolineato quindi l'importanza cruciale di promuovere la salute degli ecosistemi non solo entro, ma anche al di fuori delle aree protette. Il concetto di diversità oscura fornisce uno strumento pratico per identificare le specie idonee assenti e favorire il ripristino degli ecosistemi.

In particolare, è fondamentale aumentare il numero e la superficie delle aree rigorosamente protette, ossia di aree in cui i processi naturali sono liberi di manifestarsi, a tutela della biodiversità presente e futura”, conclude Michele Carbognani, docente di Botanica ambientale e applicata al Dipartimento di Scienze Chimiche, della Vita e della Sostenibilità Ambientale dell’Università di Parma.

A DarkDivNet, coordinato dall’Università di Tartu in Estonia, hanno collaborato, oltre all’Università di Parma, le università italiane di Bologna, dell’Aquila, dell’Insubria, di Catania, di Palermo, di Cagliari, della Basilicata e l’Università Ca’ Foscari Venezia.

Il DOI del lavoro è 10.1038/s41586-025-08814-5 

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